di GIUSEPPE SOTTILE
Questo ragazzino si chiamava Amirali Amini ed era un atleta della squadra juniores della fortissima nazionale iraniana. É stato ucciso dai bombardanti israeliani su Teheran.
Finché le guerre sono lontane, finché i volti delle migliaia di vittime non sono a noi familiari, finché le case, i palazzi, i quartieri distrutti non ci appartengono, la nostra natura ci porta a digerire tutto. Lo sconcerto, l’amarezza, dopo un po’, si attenua sotto il peso delle incombenze di ogni giorno, ripresentandosi a intermittenza negli intervalli della routine quotidiana.
Questo ragazzino per noi del mondo del taekwondo però non era un volto estraneo. Non era un semplice numero. La sua morte ci tocca da vicino, come se il missile che lo ha ucciso abbia lambito, uno dei nostri atleti, dei nostri figli, messo in pericolo le nostre vite.
Chissà quante volte avremo incrociato il suo sguardo in giro per i palasport, oppure letto il suo nome sui tabelloni di gara durante le competizioni internazionali. Quante volte abbiamo visto le bandiere di Iran e Israele, l’una accanto all’altra sui monitor posizionati sul campo di gara. Quante volte, prima di iniziare gli atleti si sono salutati, inchinando il capo e toccandosi il pugno. E quante volte alla fine si sono anche abbracciati.
Era solo sport, pura competizione. Niente odio. Nessun male.
Ora tutto è cambiato. Tutto avrà un altro significato. É stato creato un altro nemico.
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