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“LA MIA LOTTA CONTRO IL TUMORE”…

DEDICATO A TUTTI COLORO CHE DEVONO SUPERARE UNA PROVA DIFFICILE, AI LORO CARI, A CHI VIVE NELL’ANSIA… UNA TESTIMONIANZA CHE INVITA A LOTTARE E A NON AVERE PAURA SE SI GUARDA AVANTI CON FIDUCIA E CON AMORE…

Eravamo partiti da Milazzo il 12 settembre 2012.

Quel giorno ricorreva il 50° anniversario della scomparsa di mio nonno Giovannino Petrungaro, ed avevo dato incarico a mio cugino di far realizzare un necrologio sulla Gazzetta, a nome di tutti i nipoti. E proprio quel giorno, come se ad accompagnarmi nel viaggio della speranza ci fosse anche nonno Giovannino, dovevo partire per Milano ed affrontare una prova non certo facile.  

Nel porto, prima di salire sulla navetta che ci avrebbe portato all’aeroporto di Catania, avevo incontrato Aurelio Cacia, uno di quei ragazzi della Polisportiva NINO ROMANO degli anni 60.

Arrivava da Milano, mi disse. “E noi stiamo partendo”, gli risposi, spiegando il motivo. Restò incredulo, augurandomi di tornare presto! L’autista del pulmino era Peppe Mastroeni. Lo conoscevo da piccolo, lo vedevo crescere, e quel giorno me lo sono ritrovato a bordo di quel veicolo con cui la strada verso l’aeroporto, prima del volo, prima del ricovero, prima dell’intervento, sarebbe stata meno dura… La sua immensa fede in Dio, le sue parole di incoraggiamento sono state per me insostituibili compagne di viaggio… Mi diede il suo numero di cellulare, mi disse di chiamarlo ogni volta che ne avessi avuto bisogno, anche per piccole cose. E in futuro cercai in tutti i modi di mettermi anche io a sua disposizione, per quel che potevo.

Arrivammo a Milano con notevole ritardo. Carlo, il tassista di origini pugliesi che a Linate ci aspettava pazientemente, era abituato anche ai ritardi. Erano in tanti ad attendere, ognuno con un foglio sul quale c’erano scritti i nomi dei viaggiatori, ma leggendo il mio, lo chiamai sbracciandomi! Si fece incontro e ci accompagnò in un albergo prenotato a Rozzano, a qualche chilometro dall’Humanitas; nello stesso albergo alloggiavano molti di coloro in attesa di essere sottoposti a delicati interventi chirurgici.

Il giorno dopo, il 13, era il nostro anniversario di matrimonio. Lo festeggiammo in un ristorante di Abbiategrasso, cittadina dove Fiorenza e Franco, che erano venuti a trovarci, abitavano. Ero in attesa di altri esami prima del ricovero, ma Franco, generosissimo e affettuoso come pochi, volle averci ospiti suoi per quell’ora di pausa. Il pomeriggio, finiti gli altri accertamenti, mi assegnarono la stanza che dividevo con un signore di Napoli, Roberto, ricoverato per lo stesso problema e la stessa patologia. Nel frattempo erano arrivati a Milano anche mia figlia con il marito e mio nipotino, che avrebbe dovuto compiere due anni alla fine di settembre. Il tempo di un saluto e darci l’appuntamento al giorno dopo, presto, anzi prestissimo: l’infermiera mi aveva infatti raccomandato di svegliarmi alle 5, per i preliminari, prima del “viaggio”…

Ero sereno, all’alba di quel 14 settembre; sapevo cosa mi aspettava. Sereno, perché forse era l’incoscienza a prevalere sulla razionalità. Inutile lasciarsi andare ad ipotesi probabilistiche, per me era solo un incidente di percorso. Mi piacque usare quella definizione, per esorcizzare il male che aveva aggredito anche me, come tanti miei concittadini, come tanti altri che vivono nella Valle del Mela. Molti di costoro erano partiti per il viaggio della speranza, e non tutti sono tornati… Un incidente di percorso, da superare; per procedere, ancora una volta, guardando avanti con fermezza, con fiducia, con la voglia di vedere cosa mi avrebbe riservato il futuro… Una nuova prova da affrontare, così come era accaduto in passato, in altri campi. Ero riuscito sempre a superare l’ostacolo e a ripartire. Sarebbe stato così anche questa volta, ne ero certo…

Lasciai gli occhiali sul comodino, e quando mi spinsero sul lettino per uscire dal reparto, prima di percorrere un lungo corridoio, vidi due immagini sfocate che dietro la porta aspettavano il mio passaggio: mia moglie e mia figlia. Carlo, amico più che tassista, si era svegliato all’alba anche lui, per essere puntuale in hotel e portarle in ospedale. Un gesto di saluto, una battuta rassicurante, “Ci vediamo fra poco”, mentre loro, che probabilmente tranquille non erano, raccomandavano a me di stare tranquillo.

Erano ancora le sei e mezza… Con lo sguardo fisso verso il soffitto, superavo porte e corridoi silenziosi. Fin quando il mio letto fu “parcheggiato” in una sala immensa, accanto ad altri letti, attorno ai quali era un brulicare di persone. Ebbi l’impressione di trovarmi ai box, prima di entrare in pista e attendere le luci verdi per quell’insolito Gran Premio…

La mia miopia non mi permise di fissare il volto di chi si stava prendendo cura di me. Era una donna. Provai a giustificarmi con lei perché non riuscivo a vederla bene, scambiai qualche battuta, volevo far passare il tempo e non pensare ad altro. Lei mi spiegava quel che stava facendo. Poi mi invitò a fare un lungo respiro… e… non ricordo altro!

Mi risvegliai sullo stesso letto, ma non sapevo quanto tempo era passato. Sulla faccia avevo una maschera che aiutava la respirazione. Al mio braccio erano attaccati dei tubicini. Con lo sguardo seguii il loro percorso, e girando la testa intravidi una bottiglia che pendeva alla mia sinistra. Avvertivo una strana sensazione al ventre. Con la mano destra volli toccare…  sentivo un cerotto che ricopriva una vasta superficie… Stavo gradualmente riprendendo coscienza, e mi resi conto che avevano già finito, che avevo dormito chissà per quanto tempo, che forse anche questa era fatta! Aspettavo conferme… Provai a chiedere ad un’infermiera che si era avvicinata, ma non riuscii a parlare: era l’effetto dell’anestesia, le parole mi si appiccicavano in bocca!

Fu lei stessa a confermare che l’intervento si era concluso, ed allora attesi il viaggio di ritorno, passando per gli stessi corridoi, superando le stesse porte, fino al reparto, con gli occhi a fissare il soffitto.

Mia moglie e mia figlia erano rimaste dietro la porta del reparto ad attendermi. Nel frattempo era aumentato anche il numero di persone in attesa dei loro congiunti. L’infermiera permise l’accesso fino alla camera dove, per prima cosa, mi feci dare gli occhiali, per tornare a vedere il mondo attorno a me… Guardai l’orologio, vidi che erano passate più di sette ore, che era già l’ora di pranzo, ma non avevo fame… Cercavo di parlare, chiedere cosa era successo. Non potevo continuare a dormire, anche se loro mi raccomandavano di riposare: lo avevo fatto per tutta la mattinata. Ma alla fine non ce la feci…

Il telefono, che durante la mattinata aveva vibrato senza risposta dentro il cassetto del comodino, continuò anche nel pomeriggio. Non contai quante volte… Avevo voglia di sentire gli amici, per rassicurarli, e risposi a tutte le chiamate, anche se la voce aveva difficoltà a venir fuori chiaramente. Pian piano, sarei riuscito a superare l’effetto dell’anestesia, a far sentire la mia voce, a sentirla io stesso…

La notte riposai, pensando che anche questa volta ce l’avevo fatta.

Il giorno dopo, 15 settembre, l’infermiera che si prendeva cura di me mi chiese come mi sentissi. “Un leone”, fu la mia risposta. E allora mi invitò ad alzarmi. Un dolore lancinante mi impediva qualsiasi movimento, per cui rinunciai. Ma avrei dovuto riprovarci. Magari il giorno dopo… 

Fu così, infatti. Passarono i primi giorni, fatti di visite e di passeggiate nel corridoio del reparto, tra altri ammalati, tra altri visitatori, tutti nell’attesa di una rassicurazione, di un responso, della guarigione.

Prima di essere dimesso, mi fu consegnato l’esame istologico. L’unica cosa che riuscivo a comprendere erano i valori percentuali: il tumore, in poco più di un mese, aveva fatto progressi e, se avessi tardato ancora, non avrei avuto speranze. Lo stesso primario mi disse che avevamo fatto bene ad operare. Appena in tempo, pensai benedicendo Franco De Luca, vecchio amico e compagno di scuola, che dal reparto urologia di Barcellona mi aveva invitato a non perdere tempo e a operarmi…

Sono passati nove anni: sembrano tanti e non so per quanto tempo ancora devo sottopormi a controlli, accertamenti, analisi cliniche e ulteriori interventi, anche se di portata minore ma sempre preoccupanti. Certo non per me, che ormai sono abituato e li affronto con fiducia o da incosciente: l’ultimo ricovero a giugno ne è stata una prova! Grazie a Dio, posso raccontare, sorridere per il pericolo scampato, sentire vicino l’affetto di tantissimi amici e persone care, e convincermi sempre più che lassù qualcuno mi ama. La strada è ancora lunga, e per tenere in efficienza il motore occorrono controlli preventivi, per affrontare e superare altri ostacoli che causano ulteriori “incidenti di percorso”. Basta avere solo la forza, pregando chi ci è vicino, come in quel 14 settembre del 2012. Io non so chi c’era vicino a me. Dormivo, ma ho sentito una presenza rassicurante! La stessa che possono sentire tutti coloro che affrontano con fede analoghi “incidenti di percorso”! A loro è dedicata questa mia testimonianza, assieme all’invito a sperare, a credere che tutto andrà bene! 

 

 

Commenti

1 Commento

  1. Bellissimo racconto!
    nella sua drammaticità ha un valore aggiunto al suo bagaglio di vita trascorsa.
    Una speranza in più per chi come lei adesso si trova ad affrontare una situazione spiacevole lungo il percorso della propria vita.

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